“Il primo turista”: Vieste raccontata da Beltramelli, con foto d’epoca

Vieste, la remota, la perduta dal mondo, è laggiù, oltre gli ultimi scogli. Fra poco, piacendo al destino, ne vedremo l’ardito profilo

È con queste parole che si apre il capitolo dedicato a Vieste nel libro “Il Gargano” , scritto da Beltramelli nel 1907, facente parte della collezione “Italia artistica”.
Ricco di illustrazioni e foto d’epoca, il libro ripercorre la storia di Vieste, descrivendo poi il paesaggio, il castello e il territorio di Santa Maria di Merino. Un racconto emozionato ed emozionante che ci racconta la meraviglia della scoperta della città perduta ad inizio ‘900, con foto che ricordano per certi versi gli scatti postati sui social dai migliaia di turisti che ogni anno visitano Vieste.

Il libro è disponibile anche in versione digitale gratuita, come quella dell’università di Toronto disponibile sul sito archive.org

Il paesaggio e il mare

Questa fresca mattina sugli scogli non potrò più dimenticarla. Giù giù si distende, fino alla Torre del Ponte, la Spiaggia del Castello, un dolcissimo arco di mare che sì eleva lentamente tra arene quasi auree in una vasta conca ubertosa ricca di caseggiati. Dal mìo punto elevato, vedo gli uomini che si aggirano fra le arene, simili a punti neri, piccole formiche dall’esausta attività. Verso levante biancheggia lo scoglio di Portonuovo, più oltre si spinge in mare, come una -grigia massa-possente, la Testa del Gargano.
A qualche passo da me è una fanciulla che distende panni al sole ; mi guarda con insistente curiosità ; una donna più lontano, la madre forse, mi chiama per chiedermi da che parte vengo e che cerco mai lassù.

Mi sporgo dalle rocce a guardare ; l’altezza è vertiginosa ; la montagna scende a picco sul gorgo profondo, s’ inabissa nelle acque che una forte corrente non lascia mai tranquille ; si ode il loro fremito, il loro muggito. Le due lavandaie mi raccontano come il mare si sia formato, sotto alla montagna, un grande nido e come, nelle notti di tempesta, da ogni casa si oda il rombo sinistro delle onde che si incavernano.

Rimango solo lung’ora in questa divina solitudine a guardare, ad ascoltare; il paesaggio è nuovo e strano, strano sopra tutto pei colori che formano un armonico contrasto indimenticabile. Gli scogli, le rocce sono del bianco più terso che si possa immaginare e lucono dolcemente a questo sole senza offendere gli occhi ; inoltre il mare, col suo azzurro cupo e profondo, il mare che le incornicia tutte e le cinge nella sua immensità, ne sfuma le asprezze, le attenua in una gamma soave di azzurri.
E Gargano, così ricco di improvvisi contrasti, di superbe visioni, ha qui uno fra i suoi punti migliori.
Queste rocce paiono favolosi palazzi di purissimo marmo, sortì per incantesimi lunari in qualche remota età leggendaria ; palazzi rudi, ma belli. La forza dell’attimo li trasse improvvisamente dal nulla per gli dei dei mare, per le sirene allettatrici che condussero tante paranzelle, tanti navigli e tartane a naufragare a questa maraviglia.
Nel profondo gorgo, fra l’alghe marine e gli scogli, giacciono antenne infrante, ricurvi scafi, ampie carene di navi ; giacciono e giaceranno fino alla loro ultima consumazione ; grandi scheletri oscuri dell’eterna tragedia del mare, mentre dal loro piede la candida roccia prende il volo a sorridere tutta bella, tutta bianca nella libera gaiezza del sole e dell’aria. Favolose magioni della bellezza e del mistero che l’ igneo cuore della terra volle così belle per le sue creature, per gli occhi delle sue creature che sanno godere. Io le vedo stagliarsi nelle loro linee incomposte ed armoniose, le vedo ampliarsi, distendersi, e ne sento la vita millenaria fatta di luce e di silenzio. Ve n’è una più ‘grande fra le altre ; alla base, un’ampia insenatura pare formi la soglia di una invisibile porta, le acque vi tremano intorno, il sole la irradia ; forse è quella la soglia su cui si soffermano le sirene quando la luna le tiene per incantamento.

La leggenda del Pizzomunno

E v’è quaggiù chi crede ancora alle sirene, v’è chi crede alla poesia del suo mare.

Un pescatore che incontro fra questi scogli mi narra questa dolce leggenda : — « Una volta viveva a Vieste una fanciulla come non se n’eran vedute mai ; la sua bellezza superava il sole, era come l’occhio del Signore; le sirene in gelosia e un giorno in cui ella andava sola attendendo il suo amico, la rapirono.
Ora vive in fondo al mare, incatenata agli scogli. Il suo amico piange eternamente e la sospira e l’attende su la spiaggia. Una volta ogni cent’anni, le sirene si commuovono e gli amanti possono avere un giorno d’amore, ma verso sera, allorché, illusi dalla loro libertà, fanno per andarsene, le sirene tirano la catena alla quale la fanciulla è avvinta ed ella ripiomba nel mare e per altri cento anni il pianto dell’amato, simile al gemere delle onde, corre la tempesta ed il sereno.

E ancora: fu da queste rocce che Ettore Fieramosca si lanciò col suo cavallo nel mare.

Il vecchio pescatore mi dice il nome che danno nel paese a certi piccoli fiori che crescono numerosissimi fra questi scogli ; li chiamano « arruska » ; tale parola di origine araba, significa sposa, sono
asfodeli e, alla sommità delle rocce, formano grandi ghirlande d’oro, di porpora e di rosa.

Ne raccolgo tre secondo mi indica la guida gentile:

— Prendine tre, signoria, è il costume nostro : uno per l’amicizia,
uno per la fortuna e uno per l’amore.

Il Castello

Il castello che, visto da levante, pare una costruzione ciclopica, si eleva nel punto più alto e domina tutta la città che scende digradando da un lato fino alla penisoletta ove sorge la chiesa di San Francesco ; dall’altro fino alla Torre San Felice. È una insenatura chiusa, in parte, dallo scoglio sul quale sorge il faro.
Di quassù si partono le antiche mura che raccoglievano nella loro cinta tutta la città. Dal lato nord, su l’alto di un colle sabbioso di percorso difficile, si apre l’antica porta del castello interamente conservata. Non so per quale lato debba salirvi, l’impresa non è facile ; viene a mancare ai piedi il normale punto di appoggio, poi queste sabbie sono ardenti come il fuoco. Finalmente riesco alla conquista della non ardua cima e divengo oggetto di curiosità da parte di numerose donne le quali mì sbirciano, mi interrogano, vogliono sapere mille cose, quasi entrassi in casa loro o fossi un turco predone. Ma, come mi spiega un giovinetto, quassù non capita mai nessuno e un uomo nuovo è sempre un divertimento!

L’ interno del castello è in parte abitato. Un cumulo di casette sudice accoglie uno stuolo di donne e di bambini più sudici ancora. Fra queste casette s’ insenano e
discendono alla parte bassa della città alcuni vicoletti angustissimi nei quali il lezzo è veramente insopportabile. Ne percorro uno che immette in altri vicoli pieni di scale, di antri, di balconi ; di tanto in tanto da un piccolo arco, da una finestra dischiusa si intravvede il mare.

Le case che sì ammucchiano in breve spazio, discendono su gli scogli e proseguono fin su la punta di San Francesco dove sorge l’ultima chiesa. Ogni piccolo spazio è occupato ; vi sono case le quali proseguono la linea della roccia che cade a picco sul mare.

I brindisi

il mio ospite, levando l’ unico
bicchiere che ha servito a tutti, brinda alla nostra salute :

Questo vino è buono e galante
Evviva tutte quante !

Brindisi che non uguaglia, per originalità, l’altro che toccò alla signora Janet Ross

La forza dell’ uomo è l’ ingegno
E coll ingegno ogni cavallo s’aduma,
S’aduma tigre, alfante, lione ;
Poi si educano le donne collo fiato dell’ uomo,
Poi si principian a far lì fancìullini ;
Nu brindisi i faccio a tutti i Signori
Ed io mi bevo i vini.

Riprendo la via. La città sperduta, in questa caligine estiva pare sonnecchi, protesa dolcemente sul mare

Santa Maria di Merino

LA CITTA’ DEI GIARDINI

Attraversiamo vere selve di olivi ; vi sono piante secolari che distendono le loro
rame per un circuito grandissimo ; qua e là qualche vigna ubertosa, qualche campo coltivato a grano. Pulputulo, dopo avermi consigliato dormire, sonnecchia per conto suo. Il nostro mulo balla, fra la polvere, una disperata tarantella. Passiamo il “pasquarello” ove squadre di mietitori, sorvegliate da un uomo a cavallo, sono intente al lavoro.
Le spigolatrici seguono di lontano tutte vestite di bianco. Più oltre si scopre la Spiaggia Scialmarino, ove sorge sopra un’amena altura Santa Maria di Merino, antico romitaggio attorno al quale si scorgono ancora i ruderi di un’antica città che vuolsi fosse Merino.

Le origini

LA SPERDUTA.

Le origini di Vieste — o Viesti come la chiamano alcuni benché nel Gargano persista l’antica desinenza in e, — si perdono, come quelle di Rodi e di altre città
del promontorio, nella leggenda e nel mito. Al favoloso eroe Diomede e al popolo suo, se ne attribuisce la fondazione in epoca indefinibile ; o meglio, poco dopo la
guerra di Troia verso il 1 1 84 a. C. Nessuna scorta può sorreggere seriamente la indagine in tempi tanto remoti; è cosa migliore quindi, partire dal punto in cui la
storia può esserci valida guida.

Alcuni storici, fra i quali il Giuliani, sostengono essere il nome di Vieste una corruzione di Apeneste, antica città che sorgeva, secondo le loro congetture, nel luogo
ove si eleva la città moderna ; altri vogliono che Vieste derivi il suo nome da un antico tempio che sorgeva ne’ suoi dintorni, sacro alla dea Vesta.

Vieste si fa viva particolarmente nella storia per le sue sciagure ; fu perseguitata dagli uomini e dagli elementi.

In tempo di fiere lotte papali. Celestino V fu arrestato a Vieste per ordine di Bonifacio VII.

Nel 1554 i corsari Turchi assaltarono e presero la città. Per la resistenza opposta loro dagli animosi abitanti, la bestiale crudeltà, precipua dote del popolo, che è rimasto tutto dì al livello intellettuale e civile di quel tempo, si esplicò in un memorando macello. Settemila persone vennero passate a fil di spada, non avuto riguardo né a sesso né a età ; altre settemila vennero tratte prigioniere. Quando le galee vittoriose ripresero il mare, la città sperduta rimase pressoché deserta.

Quasi ciò non bastasse, non molti anni dopo e più precisamente il 21 maggio del 1646, un terremoto scosse la città dalle fondamenta e la fece minare in gran parte. Numerose furono le vittime. Non abbiamo particolari narrazioni di questi luttuosi disastri.

Nel 1674 i Turchi ritornarono all’assalto e ripeterono le loro gesta di predoni nel 1678, uccidendo e traendo schiavi i cittadini. Fra tutte le città del Gargano, quella
che più sofferse per le scorrerie dei Turchi, fu Vieste ; ebbe a risentirsene per lungo tempo.

Nel secolo XVI fu data in feudo al capitano Consalvo di Cordova, che vendè poi i suoi, diritti al Mendoza.

Carlo V l’aggregò al Demanio.

A Vieste termina una fra le pochissime strade carrozzabili che attraversano il Gargano ; oltre la città sperduta, per percorrere il promontorio dal lato di levante,
non rimangono che sentieri e vie mulattiere — si ritorna allo stato selvaggio.

Trascrizione a cura di Diego Romano, turismovieste.it

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